Il mio lavoro mi ha portato a contatto con l’ambiente produttivo internazionale: dalle fabbriche sperdute dei Paesi emergenti all’atmosfera fin troppo scintillante delle sfilate di moda.

The fashion victim

«Milano è un enorme conglomerato di eremiti», diceva Montale più di quarant’anni fa: una definizione amara, ma la Milano che vedo adesso intorno a me non evoca alcun senso di solitudine o riservatezza.
Perché i tempi sono cambiati, certo, ma anche e soprattutto perché siamo nel bel mezzo della settimana della moda e la città sembra piuttosto un enorme conglomerato di manichini, raffinati ed elegantissimi, che sfilano per le vie del centro come in un’operetta a cielo aperto.

Come al solito, io sono qui per lavoro e – dietro a una facciata di interesse, se non proprio di entusiasmo – mi limito a essere un’osservatrice distaccata e, grazie al cielo, ironica. Sì, perché è solo con l’ironia che un outsider può riuscire a sopravvivere in questo mondo governato da un solo grande Credo, dal dogma che inesorabile decreta: «L’importante è l’apparire, non l’essere».

La mia agenda dice che dovrò assistere a varie sfilate.
Le amiche mi invidiano; vedrò gli stilisti famosi, tutte le top model e parecchi vip. E io invidio le amiche che, beate loro, potranno andare in ufficio senza trucco e con il vestito dell’anno scorso. Oggi è uno di quei giorni in cui avrei voglia di nascondermi e invece dovrò mostrarmi in forma smagliante.
Comunque non ho scelta e quindi, forza… trucco, gonna, top, giacca, tacchi alti, borsa capiente per contenere la mia mega-agenda, gli inviti alle sfilate, i press release e i cotillon che raccoglierò durante la giornata.
Sono pronta. Mi guardo allo specchio. Ce l’ho fatta: appaio al mio meglio e a nessuno importerà una mazza del fatto che in realtà io sono al mio peggio.

Fuori dell’albergo c’è già una discreta coda per i taxi e io mi metto in fila insieme agli altri outsider come me. I protagonisti, invece, quelli che contano o credono di contare in questo mondo dorato, hanno delle macchine scure e lunghissime che li aspettano.
Gli autisti parlottano tra loro, in trepida attesa dei VIP che in questi giorni avranno l’onore di scarrozzare da un capo all’altro della città. Illuminati dallo sfavillio delle loro vetture tirate a lucido, guardano con commiserazione noi, misera gente comune, come a dire «Eh eh, ne farete di code oggi!»
Li incenerisco con lo sguardo, come faccio ogni volta che qualcuno mi ricorda una triste verità.

Mentre aspetto, guardo la gente che si aggira intorno a me: tutti beautiful people, tutti griffati da capo a piedi, tutti occupatissimi a non perdere neanche un attimo del loro preziosissimo tempo. C’è chi parla al telefonino in lingue incomprensibili, chi sfoglia Filofax rilegati in pelle e gonfi di biglietti da visita, chi mette in ordine gli inviti per le sfilate, chi controlla la posta sull’iPad inguainato nella custodia di Gucci.

Sono ancora in coda quando arriva una Fiat Doblò. Per questi cultori dell’apparenza è come un cazzotto nello stomaco. La guardano come si guarderebbe un grasso bacherozzo e si ritraggono dalla fila. La Doblò non piace neanche a me, per la verità, ma devo starci solo dieci minuti su quel taxi, mica devo comprarmelo.
Quando apro lo sportello per salire a bordo, mi guardano con sussiego, dall’alto in basso, però io parto per la sfilata e loro restano lì, ad aspettare una Mercedes.
Sono pronta per la giornata che mi aspetta? No, assolutamente no. Ma apparirò come se lo fossi e quindi lo sarò!

Il taxi vola attraverso le strade di Milano con una agilità insospettabile per la carrozzeria formato chioccia della Doblò e io penso che forse è solo la sua legittima rivalsa contro tutta la bellezza stereotipata che invade la città in questo periodo, a partire dai mega-cartelloni pubblicitari che tappezzano le strade per inneggiare ai grandi stilisti e all’unica dea di questo mondo pagano eppure monoteista: l’apparenza.
Maschi, con corpi che sembrano scolpiti nel marmo, appesi a ogni angolo per convincere gli uomini che, con quella giacca e con quella camicia sbottonata sul petto, diventeranno belli come loro. Parlo di marmo sia per l’indiscutibile plasticità dei loro corpi che per il fatto che per me (parere personale e quindi opinabilissimo) quei bambolotti hanno lo stesso sex appeal di una statua. Cioè zero. Sarò strana, ma a me piacciono gli uomini fisicamente imperfetti, quelli che sanno che c’è tutto un mondo al di là del loro microcosmo e che magari ti agganciano con lo sguardo per invitarti a scoprirlo con loro, non questi manichini per i quali l’unica cosa che vale la pena di agganciare con lo sguardo è uno specchio, preferibilmente a figura intera, che confermi che sono loro i più belli del reame.
Donne, talvolta poco più che bambine, che ti guardano dall’alto con gli occhi enormi nei volti di porcellana, esibendo con orgoglio la loro anoressia. Pubblicizzano dei vestiti quantomeno improbabili per una donna normale, che non può passare da una festa all’altra perché deve anche andare in ufficio, che non viaggia in limousine e che quindi è ogni tanto costretta a correre per acchiappare un autobus, che va spesso in pizzeria e non sempre in ristoranti tre stelle Michelin.

Persa in queste considerazioni, non mi accorgo che siamo arrivati a destinazione.
Scendo con mestizia dalla mia Doblò, un po’ perché mi sentivo proprio a mio agio avvolta nella sua rassicurante mediocrità e, soprattutto, perché adesso comincia davvero la mia giornata e io devo tuffarmi nella mischia. E la mischia, in questo mondo apparentemente distaccato e superiore, non ha niente da invidiare a quella degli stadi. Non solo: qui, in questi palazzi patrizi con stucchi, affreschi e lampadari di Murano, alla rissa fisica si aggiunge pure lo stress psicologico, la parte più dura per me. Ma ce la farò, come sempre…

La sfilata si svolgerà nella casa del designer in persona, in una delle zone più prestigiose di Milano, a due passi da Via della Spiga.

Davanti al portone alto almeno tre metri ci sono dei ragazzi, di bellissima presenza naturalmente, che sbarrano il passo a chi cerca di entrare.
Nella vita di tutti i giorni sono probabilmente costretti a confrontarsi con gli esami universitari o con i rifiuti delle agenzie per modelli o con un lavoro assai poco glamorous. Oggi, però, si sentono onnipotenti e con fermezza impartiscono ordini perentori:
«Lei è press? Sì? Allora non stia qui in mezzo, per favore, l’ingresso per la stampa è di là» oppure «Lo capisco signora che lei conosce Giorgio, ma per adesso stia buona qui anche lei».

Finalmente, con il solito ritardo, si aprono le porte per lasciarci entrare nel tempio in cui si svolgerà la cerimonia di iniziazione della nuova linea primavera/estate del grande stilista.
L’atmosfera è assai poco mistica per la verità.
Tutti spingono, tutti sgomitano a destra e a manca, tutti vogliono entrare per primi. Però lo fanno come se quel caos così poco cool accadesse al di là della loro volontà e loro non avessero né il controllo né la responsabilità della scompostezza dei loro corpi; i volti restano impassibili e serafici, come se stessero sorseggiando un tè o chiacchierando con un amico.
E intanto sgomitano. E intanto spingono.
Se è vero che gli ultimi saranno i primi, io sederò al posto d’onore.

Come ho detto, la sfilata si terrà nella casa del designer.
Be’, casa… Casa si fa per dire, se avesse una torre merlata avrebbe tutte le carte in regola per essere annoverata tra i castelli.
Si articola su tre piani. I piani superiori sono off-limits, ma il piano terra sembra il set de “Il Grande Gatsby” in versione milanese-chic: centinaia di fiori bianchi, candele sparse ovunque, divani bianchi, pavimenti intarsiati, pochi mobili antichi e preziosi, argenti che riflettono la luce dei grandi lampadari di cristallo. Un minimalismo da milioni di euro.
Camerieri, che sembrano la dea Kali dalle quattro braccia, volteggiano tra gli invitati con vassoi carichi di flûtes di champagne e di finger food di tutti i tipi: il finger food va forte alle sfilate, perché permette di apparire eleganti anche mangiando con le mani. Con le dita, dicono loro, ma sempre di mangiare con le mani si tratta. Le crudités poi vanno per la maggiore, si possono addentare senza sbaffarsi il rossetto e contengono solo frazioni di calorie.

Mi guardo furtivamente in giro, io in questo zoo cerco sempre di fare l’orso.
Vedo alcune persone che conosco e ringrazio il cielo che siano tutte occupate a salutarsi tra di loro, a dirsi l’un l’altro «Ma coooome stai bene!», a sfiorarsi le guance con teatrali caricature di effusioni: baci soltanto mimati, con le labbra che si sporgono appena come in un broncio, e i volti che si avvicinano con uno slancio plateale bloccato però a distanza di sicurezza da qualsiasi contatto fisico portatore di insidie per bacilli, make-up e acconciature.

Agguanto al volo un bicchiere e mi infilo di soppiatto nella stanza in cui si terrà la sfilata. La sala è grande, ma non so davvero dove entreremo tutti quanti, qui sembra già pieno e fuori c’è almeno altrettanta gente che gozzoviglia con i salatini.

Cerco il mio posto. Lo trovo. Noto subito che sul sedile non c’è più il cotillon offerto in omaggio dallo stilista ai suoi invitati. Scoprirò più tardi che si trattava di un bellissimo paio di occhiali da sole, che qualcun altro indosserà al posto mio.
Quella dei cotillons è una storia che si ripete ogni volta. Tutti fanno finta di snobbarli, come se a nessuno importasse una mazza di quegli oggettini firmati, ma poi c’è la gara a chi ne agguanta di più, raccogliendoli con nonchalance dal proprio sedile e da quelli dei ritardatari.

Vabbè, ho divagato. Torniamo alla sfilata.
Adesso la stanza è stracolma.
In prima fila i soliti noti: giornalisti, compratori per la maggior parte stranieri, diversi VIP e alcuni prezzemolini, quelli che si trovano sempre e dappertutto quando c’è la speranza di apparire in una foto che finisca su un giornale.

Subito sotto la pedana e ammassati sul fondo della sala c’è una ressa incredibile di fotografi.
Fotografo di moda, una professione considerata affascinante da chiunque non abbia avuto l’occasione di vederli arrancare da una sfilata all’altra, fendendo la folla e trascinandosi dietro gli attrezzi del mestiere. Avete presente? Macchine fotografiche, obiettivi che sembrano telescopi, cavalletti, filtri, batterie di riserva e altre diavolerie tanto misteriose quanto ingombranti.
Prima che inizi la sfilata, corrono avanti e indietro per fotografare le varie personalità presenti, e c’è da dire che hanno un occhio incredibile per non perdersene neanche una.
Durante la sfilata si piazzano in bilico per riuscire a catturare le migliori inquadrature e, mentre scattano a raffica, strillano come aquile alle modelle solo apparentemente impassibili: «Girati» «Fermati» «Sorridi».
Poi, alla fine, riprendono a correre da un VIP all’altro, senza tregua. E dopo via di corsa, sudati e ansimanti, per raggiungere la prossima sfilata dove tutto ricomincia.
Dai movimenti dei fotografi si può valutare anche il prestigio della collezione che viene presentata: se si accalcano davanti a una velina o al vincitore di turno del Grande Fratello vuol dire che nessuno di più importante è presente in sala: un ben misero biglietto da visita per lo stilista.

Questa però è una sfilata prestigiosa e i fotografi hanno il loro bel daffare a immortalare tutte le celebrità presenti. Divi di fama mondiale, beniamini di casa nostra e perfino un paio di intellettuali che per la verità poco o niente hanno a che fare con questo mondo.
C’è pure un premio Nobel, un signore attempato che sembra chiedersi come mai si trovi qui; be’, devo dire che mi rincuora e mi inorgoglisce sapere che, in questo momento, ho lo stesso identico pensiero di un Nobel.
I guru della moda presenti in prima fila li guardano di sottecchi, troppo egocentrici per apparire curiosi e troppo curiosi per essere egocentrici.

D’un tratto, si smorzano le luci, la musica si accende, e tutti i personaggi in sala diventano comparse: VIP e gente comune spariscono insieme nell’ombra, mentre i riflettori illuminano soltanto la pedana, ovvero il palcoscenico di questo strano spettacolo in cui solo i costumi contano davvero.
Nel buio, potrò godermi la sfilata e, finalmente, anche una breve tregua dall’eterna lotta tra l’essere e l’apparire: una battaglia perversa, innaturale e – per quanto mi riguarda e va bene così – impossibile da vincere.