In un’era in cui l’arte della cucina imperversa in libreria, in edicola e in tv, io ammetto, senza orgoglio né vergogna, di essere un cuoca inetta e di non nutrire speranze o aspirazioni di cambiare.

Il miracolo di Natale

Il tacchino deve essere ordinato almeno una settimana prima.
Ho detto il tacchino, così, in generale, ma in realtà deve a-s-s-o-l-u-t-a-m-e-n-t-e essere una tacchina perché, come nella maggior parte dei bipedi d’altra parte, la femmina è più tenera e più sapida: è migliore, insomma, del maschio.
La tacchina, dicevo, deve essere ordinata vari giorni in anticipo, perché dovrà pesare minimo sei chili, una stazza non troppo richiesta in questa società di single, coppie e mini-famiglie.

Tre giorni prima, si deve tagliare il pane a cassetta in tanti piccoli cubetti, in modo da farli arrivare secchi e croccanti al giorno del grande evento.

E oggi quel giorno è arrivato e io guardo, sgomenta, l’assortimento infinito di ingredienti che dovrò manipolare, soffriggere, amalgamare, infornare, nella speranza di tirarne fuori qualcosa di commestibile.

Non amo cucinare e, quando proprio non posso evitarlo, lo faccio come se stessi partecipando a un gara a cronometro, in cui non vince chi cucina meglio, ma chi arriva prima.
«È l’ansia da prestazione», dico io.
«È la fretta di finire e di metterti a fare qualcos’altro», dice mio marito.
In genere ho una discreta fantasia, ma ogni mia potenziale creatività si azzera quando mi metto ai fornelli. Se seguo una ricetta lo faccio alla lettera, dosando gli ingredienti come un farmacista, e mi lascio prendere dal panico quando leggo quelle due infami letterine: q.b., quanto basta. E che ne so io di quanto basta? Il sale, per esempio: lo cospargo timidamente in quantità minima e poi assaggio cento volte per aggiustarlo strada facendo; praticamente mi mangio la mia porzione durante la cottura.
Ma domani è Natale e siamo tutti più buoni.
Così accetto di buon grado questa giornata di martirio psicologico, in nome di uno dei valori a me più cari: l’amicizia.
Sì, perché sedici amici sederanno alla nostra tavola questa sera, affamati e allegramente ignari del mio sacrificio.

È iniziato tutto una decina di anni fa.
Quel novembre ero stata negli Stati Uniti e qualcuno mi aveva dato la ricetta del tacchino di Thanksgiving.
Decisi di provarla, così, per gioco.
Invitai gli amici a cena, sedici per l’esattezza, vista la cubatura del piatto forte, e stipai il frigo di salumi e di formaggi, certa che il tacchino sarebbe risultato immangiabile.

Venne buonissimo, invece, tra l’incredulità generale e la mia in particolare.
«È la fortuna dei principianti», pensai io e, sicuramente, anche gli altri.

Ci riprovai l’anno dopo. Stesso successo.
Il terzo anno non comprai né salumi né formaggi e passai ore a spiare il tacchino nel forno, pregandolo di non tradirmi. Per fortuna, o purtroppo, non mi tradì.

E così eccomi qua anche quest’anno, pronta a immolarmi sull’altare dell’amicizia per festeggiare tutti insieme un’altra vigilia.

La tacchina troneggia sul tavolo di cucina e, anche nella sua nudità implume, appare imponente e tronfia: sette chili, che si tradurranno in sei ore di forno per lei e di ansia per me. Ogni tanto mi sorprendo a sperare in un fallimento che chiuda, nel disonore ma chissenefrega, questa stressante tradizione.

Tolgo le piume rimaste, fiammeggio, poi comincio a preparare il ripieno.
Metto il burro nella casseruola; nessun q.b. in questo caso, le ricette americane sono scientifiche e le dosi sono indicate con precisione anche per il burro: una libbra, alla faccia del colesterolo. Ci aggiungo le cipolle tritate, la salvia, e anche le salsicce nostrali, che, incredibile ma vero, sono una mia variante.
Lascio soffriggere per mezz’ora, con la testa sopra alla casseruola che sfrigola, per controllare che le cipolle non si brucino. Sono traditrici, le cipolle: passano dalla doratura alla carbonizzazione in un attimo.
Ci aggiungo il pane secco e le castagne bollite; amalgamo bene. Okay, il ripieno è pronto.
Lo stipo all’interno del tacchino e mi armo di ago da tappezziere e di spago per cucire le aperture; neanche il cucito rientra tra le mie abilità, ma in qualche modo sigillo il tutto.
Inforno. Sei ore, irrorando con l’olio di cottura ogni quarantacinque minuti.
Tra un’irrorazione e l’altra, preparo la tavola, gli aperitivi, i contorni, mi faccio la doccia, ma i miei pensieri restano lì, affacciati a quel forno.

Gli amici cominciano ad arrivare, eleganti e profumati come rose.
«Ma che buon odore!»
«La bestia dov’è? Nel forno?»
«Accidenti, è bella grossa anche quest’anno».
«Che bel colore, una doratura perfetta».
Il mio colore invece tende al paonazzo, ma nessuno sembra farci caso: io sono solo una comparsa, la protagonista della serata è lei, la tacchina.

Siamo tutti a tavola adesso.
Io quasi non tocco cibo: guardo la tacchina, arrostita alla perfezione, con la sua crosticina croccante, e la rivedo bianca e intirizzita come un cadavere (è proprio il caso di dirlo!) sul mio tavolo di cucina.
Gli amici si contendono la coscia o l’ala. La Cranberry Sauce e la salsina di cottura passano veloci di mano in mano.
Il miracolo di Natale si è compiuto ancora una volta: dopo 364 giorni di latitanza culinaria, ho di nuovo sfornato un tacchino che è un capolavoro.

Alla fine della cena gli amici, felici e satolli, brindano alla cuoca.
Io mi stampo in faccia un sorriso, mentre cerco di capire se le lacrime che mi pungono gli occhi siano di commozione per il presente o di disperazione per la prossima vigilia.
«Per tutti e due», direbbe Salomone nella sua saggezza.
E io, che pure saggia non sono, sono d’accordo con lui.