Come ho già detto altrove in questo sito, forse amo tanto viaggiare perché so che la mia Firenze è sempre lì, che mi aspetta. Anche adesso che vivo in campagna, ci passo almeno un paio di giorni alla settimana, per respirare arte e caos e per rivedere gli amici.
Ed è a Firenze che dedico questa breve allegoria, in cui la malinconia spegne il taglio ironico che, quando mi sono messa a scrivere, intendevo darle.
Dietro la facciata.
Sono innamorata persa di Firenze, di un amore che dura da sempre e che è stato a lungo ricambiato. Per questo, come spesso accade nelle relazioni importanti, ho finto di non vedere i primi segni della nostra crisi.
Più passa il tempo, però, e più aumenta il distacco, e così è arrivato il momento che io faccia qualcosa, prima che sia troppo tardi.
“Non può trattarsi di niente di grave”, mi dico, “di niente che non possa essere risolto tra noi due, da sole.”
Purtroppo però – e da un pezzo, ormai – sembra che Firenze sia troppo occupata per concedermi anche un briciolo di intimità.
Io l’ho cercata tra strade e vicoli, piazze e lungarni, ho spiato ogni suo tratto per ritrovarla, ma lei è cambiata al punto che spesso non riesco neanche a riconoscerla.
La cerco anche oggi.
Mi avvio verso il Ponte Vecchio, un’icona che la rappresenta in tutto il mondo.
L’architettura e le botteghe di questo ponte hanno sempre attratto i turisti, ma un tempo erano turisti discreti, eleganti, silenziosi.
Oggi attraversare il ponte degli orafi è un’avventura che richiede doti fisiche e sportive non indifferenti: agili dribbling tra le macchine fotografiche per non disturbare le inquadrature, elastici salti per scavalcare la gente stravaccata sui marciapiedi, atletici percorsi a ostacoli per scansare i cortei del turismo organizzato, che non vedono niente al di là dell’ombrellino brandito dalla guida.
L’Arno, non più d’argento, è qui sotto, ma io devo andare a memoria perché la folla lo nasconde alla vista.
Imbocco Por Santa Maria e passo in Via dei Calzaiuoli, una zona in cui la globalizzazione ha colpito di brutto: la distribuzione di massa ha spazzato via i negozietti e le boutique, il fascino discreto dei caffè ha ceduto ai richiami urlati del fast food e delle pizze a taglio.
No, non è qui la mia Firenze.
I profili del Battistero e della cupola del Brunelleschi mi rassicurano: sono a Firenze, anche se la piazza del Duomo è più affollata e brulicante di un formicaio.
Vago senza meta fino a Piazza Santa Croce, trasformata da turisti e bancarelle in una sagra paesana.
Continuo il mio pellegrinaggio in Oltrarno, dove Pratolini ambientò il suo romanzo “Le ragazze di San Frediano”, ma non trovo traccia dei fiorentini doc che si canzonavano tra loro con quel fine sarcasmo che soltanto i forestieri trovano offensivo; spariti, probabilmente intimiditi dai tanti localini alla moda che propongono Happy Hour a base di Mojito e brunch con scrambled eggs.
Si è fatto buio e io mi sento sfinita.
Vado a letto, ma dormo poco e male e all’alba esco di nuovo.
Ed è proprio adesso, in quest’aria pallida del primo mattino, che io ritrovo la mia Firenze.
La ritrovo nelle piazze deserte, negli scorci che mi appaiono d’un tratto, incorniciati da archi di mattoni, e negli spazi aperti e vuoti dei Lungarni. La ritrovo nella dignità che i negozi chiusi hanno restituito agli edifici rinascimentali. La ritrovo nell’Arno, di nuovo d’argento in questa luce opalescente che accarezza ogni cosa.
E sento che all’amore che ci lega da sempre si è aggiunta adesso l’intima complicità di chi condivide un segreto: Firenze me l’ha appena svelato.
Lei non è cambiata, deve solo sottomettersi a chi la costringe a recitare per un pubblico caotico e chiassoso. E come un’attrice in una tragica commedia, accetta di indossare ogni giorno un grottesco trucco di scena per interpretare la parte che le hanno assegnato.
Poi, però, all’alba se lo toglie quel trucco, e si offre a chi la ama davvero con il suo volto bellissimo e puro solo lievemente segnato dalla fatica.
Solo pochi lo sanno.
Solo pochi sanno quanto sia straordinaria e coraggiosa la mia splendida città.